Intelligenza artificiale, libri e creatività: quale futuro? (seconda parte)

Che si tratti di comporre musica o dipingere quadri, l’Intelligenza Artificiale ha la capacità tecnica e creativa di fare arte. Harald Willenbrock, autore e cofondatore di alcune riviste specializzate, ha intervistato a proposito l’editore argentino Octavio Kulesz che spiega come questa competenza potrebbe portare a un’esplosione di creatività e, allo stesso tempo, a una maggiore concentrazione di mercato. Eccone la seconda parte, per leggere la prima clicca qui.

A quali professioni creative sta pensando?

Nella misura in cui l’IA permette di automatizzare i compiti, diverse attività oggi svolte da esseri umani saranno delegate, almeno in parte, alle macchine. Queste includono la traduzione, la correzione di bozze, il graphic design, la composizione musicale e lo sviluppo di immagini e video. Ciò non significa che l’automazione sostituirà completamente queste professioni creative, ma se le macchine riusciranno a svolgere una determinata percentuale di queste attività, coloro che padroneggiano le tecniche di IA vedranno aumentato il loro potenziale, mentre coloro che non sanno utilizzare quelle tecniche verranno colpiti duramente.

Quanto è grande il rischio che l’IA come strumento culturale porti a una concentrazione di mercato ancora più elevata per le grandi aziende tecnologiche?

Il grande pericolo dell’IA non risiede in una possibile ribellione delle macchine (che al momento non è altro che un popolare scenario di fantascienza), bensì nel fatto che le grandi aziende tecnologiche guadagnino troppo potere. La concentrazione economica è sempre dannosa, e nel settore culturale il rischio è che potremmo avere monopoli oppure oligopoli non solo nella distribuzione di beni e servizi culturali, ma anche nella loro creazione e produzione.

Questo potrebbe essere ancora più vero quando Google, Apple, Facebook e Amazon (GAFA) passeranno dall’essere distributori di beni culturali all’essere loro stessi produttori.

Esattamente. La struttura stessa delle grandi aziende tecnologiche, che operano come piattaforme il cui asset più prezioso sono i dati, permette loro di dominare la catena del valore: creazione, produzione e distribuzione. Non registriamo più la classica concentrazione orizzontale in cui alcune figure potenti comprano la concorrenza, i titani della tecnologia odierni formano mercati chiusi: non dominano una fetta specifica, sono diventati il mercato in quanto tale. L’uso diffuso dell’IA non farà che promuovere questa tendenza.

Quando l’IA diventa un creatore di beni culturali (di opere visive, musicali o letterarie) chi detiene il copyright di queste opere? L’ingegnere informatico che ha programmato l’IA? La società tecnologica che possiede l’IA? Gli artisti umani dai quali la macchina ha imparato? Una combinazione di tutti e tre? O nessuno?

Questo è un punto chiave nel dibattito sull’IA e la creazione. Ho discusso la questione in dettaglio in una guida sull’IA nelle arti e nei settori creativi che ho scritto di recente insieme a Thierry Dutoit, pubblicata dall’Organizzazione Internazionale della Francofonia (OIF) e la Wallonie-Bruxelles International (WBI).
La discussione è ancora in corso, ma la legislazione ha teso a definire il creatore effettivo come colui che ha usato l’IA per realizzare l’opera. Ciò che è chiaro è che la macchina di per sé non può essere considerata il creatore poiché manca di intento.

Se guardiamo all’IA nel suo ruolo di distributore di beni culturali personalizzati per i singoli consumatori secondo le loro specifiche preferenze, ciò non potrebbe portare a una perdita di narrazioni e discorsi comuni, un mondo in cui ciascun individuo consuma il proprio programma culturale?

Circa dieci anni fa, Eli Pariser coniò l’espressione filter bubble per riferirsi all’universo di informazioni che gli algoritmi creano per ognuno di noi. I social network tendono a produrre delle echo chambers (camere dell’eco) che rafforzano le nostre credenze e, in molti casi, finiscono per isolarci in sottogruppi.
Dal momento che l’IA non viene usata solo per distribuire contenuti, ma potrebbe anche essere usata per crearli per andare incontro ai gusti di ciascun cliente, potremmo raggiungere una situazione di “bolla perfetta” in cui le espressioni culturali verrebbero generate in modo automatico e personalizzato, smettendo di veicolare significato, valori e narrazioni comuni.
Ora il punto è se sia possibile una società senza un’identità culturale condivisa.

Ovviamente l’IA apre nuove possibilità e opzioni creative (strumenti, influenze e modalità espressive) riducendo, allo stesso tempo, la sfera creativa, per esempio attraverso un accesso limitato alla tecnologia, l’influenza delle società tecnologiche, la creazione di bolle sociali ecc. È forse un paradosso insolubile?

Se continuano le tendenze attuali, è molto probabile che ci ritroveremo di fronte a un’esplosione di contenuti creativi, così come a una maggiore concentrazione economica. È questo in realtà il problema ricorrente di ogni tecnologia. Dobbiamo prestare attenzione non solo alla ricchezza totale generata, ma guardare oltre, a come questa ricchezza è distribuita tra le diverse parti interessate. Spetterà a tutti noi (utenti, artisti, imprenditori, responsabili delle decisioni politiche e altri ancora) concordare uno scenario più equo, pluralistico ed eterogeneo.

Cosa vede, allora, in sostanza per adesso: l’IA è sinonimo di una più ampia diversità nelle espressioni culturali o di ulteriori limitazioni?

Le tecnologie non hanno in alcun modo una vita propria; la chiave sta in quello che facciamo o non facciamo con esse.
La situazione mi ricorda la storia dei due lupi: un anziano Cherokee sta dando lezioni di vita a suo nipote. “C’è una lotta in corso dentro di me”, dice al ragazzo, “È una lotta terribile, tra due lupi. Uno è malvagio; rappresenta la rabbia, l’invidia, il dolore, il rimpianto, l’avidità, l’arroganza e l’ego”, continua, “L’altro è buono: è gioia, pace, amore, speranza, serenità, gentilezza e compassione. La stessa lotta è in corso dentro di te, e anche dentro chiunque altro.” Il nipote ci pensa per un po’ e poi chiede al nonno: “Quale lupo vincerà?” e l’anziano Cherokee risponde semplicemente: “Quello a cui dai da mangiare”.
Stiamo affrontando lo stesso dilemma: a seconda delle decisioni che prenderemo nei prossimi anni, l’ecosistema culturale potrebbe diventare più vivace e pluralistico oppure potrebbe essere controllato da un gruppetto di aziende tecnologiche la cui visione delle arti è puramente utilitaria.

Se ci incontrassimo di nuovo tra cinque anni, in che modo la sua risposta alla mia seconda domanda (dove e come l’IA sta già plasmando la nostra cultura oggi) sarebbe diversa da quella che mi ha appena dato?

È davvero difficile fare proiezioni perché generalmente ci approcciamo al futuro come a una continuazione di tendenze passate. I progressi dell’IA possono diventare esponenziali e rendere obsolete le nostre proiezioni più ardite. Ora che i sistemi di IA possono persino scrivere codici di programmazione, l’unica cosa che possiamo prevedere è che nei prossimi cinque anni assisteremo a balzi non solo quantitativi, ma anche qualitativi di dimensioni enormi. L’intensa digitalizzazione derivante dai lockdown e dalle quarantene non ha fatto altro che accelerare questi processi.
Mi piace pensare che le diverse forze sociali e politiche prenderanno coscienza delle implicazioni di questi cambiamenti e agiranno per difendere i valori e i principi legati a democrazia, pluralismo, diversità, eguaglianza, non discriminazione, diritti delle minorità, conoscenza delle tradizioni, prospettiva dei popoli indigeni e rispetto della natura in un’epoca dominata dall’IA. Tuttavia, la trasformazione potrebbe avvenire così rapidamente che solo coloro che possiedono informazioni riservate potranno trarre vantaggio dalla situazione, rafforzando ulteriormente situazioni monopolistiche che diventerebbero allora irreversibili. L’UNESCO ha recentemente pubblicato una bozza globale di raccomandazione sull’etica dell’IA che esplora tutte queste questioni urgenti.

Per finire, c’è un’opera d’arte, musica o letteratura valorizzata o creata dall’IA che ci può consigliare?

Di recente ho partecipato a un webinar sull’impatto dell’IA sulla diversità delle espressioni culturali organizzato da OIF, WBI e UNESCO. Tra i relatori c’era Benoît Carré, uno dei principali compositori di musica IA, che ha lanciato l’album American Folk Songs nel 2019. Ha alimentato la macchina con le opere di Henry Purcell e altri compositori per creare nuovi arrangiamenti per canzoni popolari tradizionali. Il risultato è straordinario. La prima canzone dell’album, una versione della ballata Black is the Color, è davvero sublime.

Prima parte


Articolo originale The Wolf We Feed di Harald Willenbrock
Traduzione di Ivana Minuti

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